MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA - Tribunale Pescara Sent., 15-05-2018

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA - Tribunale Pescara Sent., 15-05-2018

In tema di maltrattamenti in famiglia, per la configurabilità del reato non è richiesta una totale soggezione della vittima al soggetto agente, in quanto la norma, nel reprimere l'abituale attentato alla dignità e al decoro della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza. Tanto che nello schema del delitto di maltrattamenti non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, senza che assuma rilievo il fatto che gli atti lesivi si siano alternati con periodi di normalità e che siano stati, a volte, cagionati da motivi contingenti, poiché, data la natura abituale del delitto, l'intervallo di tempo tra una serie e l'altra di episodi lesivi non fa venir meno l'esistenza dell'illecito.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Tribunale di Pescara

Il Tribunale di Pescara, composto dai Signori:

- Rossana Villani - Presidente;

- Francesco Marino - Giudice;

- Giovanni de Rensis - Giudice;

all'udienza pubblica del 14-5-2018, ha pronunziato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo, la seguente

SENTENZA

nel procedimento indicato in epigrafe nei confronti di:

- B.E., nato a C. A. il (...), residente in M. alla via M. P. n. 11;

difeso di fiducia dall'avv. Alfredo Testa del Foro di Pescara;

imputato:

A) del reato di cui agli artt. 81 cpv. e 572 c.p., per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, quale coniuge di F.A.M., maltrattato la di lei figlia P.K. e le di lei nipoti M.V. ed A., tutti conviventi, sottoponendole a continue vessazioni fisiche e psicologiche, ingiuriandole con epiteti quali "puttana" e picchiandole, lasciandosi andare a scoppi d'ira nel corso dei quali rompeva suppellettili in casa, soprattutto sotto l'effetto dell'assunzione di alcolici ed, infine, costringendo P.K. ad un rapporto sessuale a lei sgradito;

in Montesilvano, dal maggio 2013 all'8-11-2015;

B) del reato di cui agli artt. 61 n. 1), 609 bis e 609 septies, 4 co. n. 2), c.p., per avere, al fine di commettere il reato che precede, con violenza, consistita nello spingerla a terra, tapparle con la mano la bocca e porsi denudato sopra di lei, ed abusando delle particolari condizioni di inferiorità psichica in versava in virtù dello stato di soggezione per il rapporto di coniugio con la madre, computo atti sessuali nei confronti della figlia (della coniuge convivente) P.K., denudandola, strusciandosi a lei nelle parti intime e tentando di congiungersi carnalmente con la stessa;

in Montesilvano, in un giorno imprecisato del mese di maggio 2014;

C) del reato di cui all'art. 582 c.p., per avere cagionato a M.V. lesioni personali giudicate guaribili in tre giorni, colpendola con più schiaffi e spingendola;

in Montesilvano, l'8-11-2015;

con la recidiva reiterata ex art. 99, 4 co., c.p.;

parti civili: P.K., M.A. e M.V., elettivamente domiciliate presso il difensore di fiducia avv. Roberto Mariani del Foro di Pescara;

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

Con decreto del 21-2-2017, il Giudice dell'udienza preliminare disponeva il giudizio a carico dell'imputato per i delitti meglio innanzi precisati.

L'istruttoria dibattimentale

Nel corso dell'udienza dell'8-5-2018 venivano assunte le deposizioni testimoniali delle parti civili P.K., M.V. e M.A. (tra di loro rispettivamente, madre e figlie).

Orbene, come in ogni processo in tema di maltrattamenti e violenza sessuale, la testimonianza della persona offesa assumeva un ruolo centrale nella vicenda: ebbene, la materiale plasticità offerta dalle sorelle V. ed A.M. - il riferimento è all'iniziale tensione prima ancora di iniziare la deposizione (ci si riferisce ad A.M.), all'emozione che prendeva il sopravvento allorquando le giovani donne dovevano narrare di accadimenti da loro avvertiti come "maggiormente crudi" ed al loro pianto ripetuto - in uno con l'assoluta linearità delle loro dichiarazioni, forniscono la certezza assoluta della veridicità del dictum fornito dalle ragazze.

Ciò, peraltro, nel rispetto dell'insegnamento (cfr., in parte motiva, Cass. sez. II n. 46100 del 27-10/20-11-2015) secondo il quale la vulnerabilità della persona offesa, nella misura in cui produce fratture non decisive della progressione dichiarativa e si manifesta attraverso un contegno timoroso, non è elemento che possa, da solo, generare apprezzamenti d'inattendibilità; la credibilità dei contenuti, infatti, deve essere valutata anche sulla base della comunicazione extraverbale, della quale deve essere apprezzata la coerenza con le cause della vulnerabilità (e, segnatamente in quel caso, con la relazione che legava il dichiarante con l'accusato, allorquando la Corte d'Appello di Catanzaro aveva evidenziato come il contegno agitato e pauroso del testimone non inficiava, ma anzi confortava l'attendibilità, in quanto si trattava di comportamenti coerenti con il clima di intimidazione e paura causatogli dall'imputato).

Dopo avere premesso di essere tornata a vivere per alcuni periodi con la madre allo scopo di assisterla (essendo F.A.M. affetta da un tumore cerebrale), la parte civile P.K. (la quale era la figlia della F., a sua volte coniuge dell'imputato) riferiva che, allorquando ella aveva convissuto con la madre e con l'imputato, la condotta del B. era connotata dalla seguenti condotte:

- l'imputato - di professione camionista - tornava a casa soltanto nei fine settimana, ed in tali occasioni era molto spesso ubriaco;

- "I sabati erano tremendi. La sera specialmente ... le parolacce, verso di me, verso mia mamma ... di tutto e di più proprio";

- l'imputato, in preda ai fumi dell'alcool, rompeva abitualmente alcune suppellettili nei suoi accessi d'ira;

- "Una volta stavo a dormire sul divano, ma le parlo di tantissimi anni fa ... e lui sul divano mi ha toccato intimamente ... ".

Il culmine dell'abiezione, però, si verificava allorquando - nel corso di una notte del mese di maggio 2014 - il B., il quale era già completamente nudo, spalancava la porta della stanza della P., si avventava su quest'ultima che si trovava a letto, le abbassava i pantaloni del pigiama e, sul pavimento, tentava di penetrarla - facendo si che i suoi organi genitali entrassero in contatto con quelli della vittima {"Stava sopra di me ... Che faceva? Quello che deve fare un uomo ... Mi stava tentando di penetrare"} - non riuscendo a fare ciò per l'arrivo in casa (e subito dopo nella stanza della madre) di M.V., la quale riusciva ad evitare la protrazione della descritta condotta illecita.

M.V. - la quale confermava che l'imputato era regolarmente ubriaco quando egli tornava in casa nel weekend ed aggiungeva di essere tornata a casa in Abruzzo da Milano onde aiutare la madre nell'assistenza nella nonna F.A.M. - precisava che gli insulti a lei riservati erano del seguente tenore: "Che io a Milano ero andata solo a raccogliere lo sperma, che ero una puttana, che ero una zoccola, che facevo venire le persone sotto casa perché così gli potevo dare quello che volevo per avere protezione ... le stesse cose che diceva a mia mamma e a mia sorella ... alcune volte capitava che si masturbava davanti a noi sul divano, perché era ubriaco".

In un'occasione in cui la M. "si era permessa di rispondere" al B. - il riferimento era all'episodio dell'8 novembre 2015 - "Lui si è alzato e mi ha preso ripetutamente a schiaffi ... cioè quando mi ha preso a schiaffi un attimo ho visto tutto nero", cagionandole quanto indicato nel (prodotto) certificato dell'8-11-2015 del Pronto Soccorso dell'Ospedale di Pescara.

Quanto alla violenza sessuale prima menzionata, M.V. narrava di essere tornata a casa poco dopo la mezzanotte e di avere notato i vestiti del B. piegati ed appoggiati sul bracciolo di un divano, "Sono arrivata fino in camera e la porta era aperta ed era accesa la televisione. Tutte le coperte erano tirate a un lato del letto e lui mi urlato di andare via e mia mamma ha urlato, invece, che ... che era quello ... E io gli ho detto di andarsene. Lui si è coperto e ha detto: "Che schifo" e se ne è andato. Mia mamma portava un pigiama verde con una mucca davanti e aveva sangue qua, sul pigiama. Io poi ho chiuso la porta e ho preso anche un quadro dove c'era la foto sua e l'ho sbattuta per terra".

Anche M.A. riferiva che il comportamento del B. era "indescrivibile ... Stava sempre ubriaco, ci prendeva a parolacce, ci diceva che eravamo delle puttane, delle zoccole, che ci meritavamo, non so, di tutto ... Questo era il suo atteggiamento ... Tutte le domeniche ... Tutte le domeniche che tornava lui ... lui beveva sempre. Lui sprecava il suo stipendio a bere" nonché che spesso distruggeva oggetti e soprammobili.

La colpevolezza dell'imputato in ordine ai delitti sub A)

Ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti, è necessario che il soggetto attivo sottoponga il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali, in modo che i singoli atti vessatori siano uniti tanto da un legame di abitualità (elemento oggettivo), quanto dalla coscienza e volontà dell'agente (elemento soggettivo) di porre in essere abitualmente tali atti.

La serie di fatti in cui si sostanzia il reato de quo, isolatamente considerati, potrebbero anche non costituire delitto, in quanto la ratio dell'antigiuridicità penale risiede nella loro reiterazione, che si protrae in un arco di tempo che può essere anche limitato, e nella persistenza dell'elemento intenzionale (cfr. Cass. sez. VI n. 9923 del 5-12-2011/14-3-2012, rv. 252350). Inoltre integra il delitto in questione, e non quello di abuso dei mezzi di correzione, la consumazione da parte del genitore nei confronti del figlio minore di reiterati atti di violenza fisica e morale, anche qualora gli stessi possano ritenersi compatibili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l'agente è portatore.

Con non comune approfondimento (cfr. Cass. sez. VI n. 25183 del 19/25-6-2012, rv. 253041) è stato rammentato che nella nozione di "maltrattamenti" rientrano i fatti lesivi della integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, che rendano abitualmente dolorose le relazioni familiari, e manifestantisi mediante le sofferenze morali che determinano uno stato di avvilimento o con atti o parole che offendono il decoro e la dignità della persona, ovvero con violenze capaci di produrre sensazioni dolorose ancorché tali da non lasciare traccia. Non è necessario, quindi, per la configurabilità del delitto in esame un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto, perché il reato è caratterizzato da un'unità significante costituita da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un'unica intenzione criminosa di ledere l'integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo: cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze; e ad integrare l'abitualità della condotta non è necessario che la stessa venga posta in essere in un tempo prolungato, essendo sufficiente la ripetizione degli atti vessatori, come sopra caratterizzati ed "unificati", anche se per un limitato periodo di tempo. Pur sottolineando che il lasso di tempo, ancorché limitato, è tuttavia utile alla realizzazione della ripetizione di atti vessatori idonea a determinare la sofferenza fisica o morale continuativa della parte offesa; anche se uno degli indici obiettivi è rappresentato proprio dalla seriazione di atti che contrassegna, di norma, l'abitualità. Per la configurabilità del reato non è richiesta una totale soggezione della vittima all'autore in quanto la norma, nel reprimere l'abituale attentato alla dignità e al decoro della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza.

Tanto che nello schema del delitto di maltrattamenti non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, senza che assuma rilievo il fatto che gli atti lesivi si siano alternati con periodi di normalità e che siano stati, a volte, cagionati da motivi contingenti, poiché, data la natura abituale del delitto, l'intervallo di tempo tra una serie e l'altra di episodi lesivi non fa venir meno l'esistenza dell'illecito. Si è parlato anche di atti di sopraffazione sistematica tali da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza; l'elemento psichico, poi, si concretizza in modo unitario ed uniforme e deve evidenziare nell'agente una grave intenzione di avvilire e sopraffare la vittima e deve ricondurre ad unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale e materiale di quest'ultima, pur non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante il lasso di tempo considerato siano riscontrabili nella condotta dell'agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo. L'oggetto giuridico non è costituito, dunque, solo dall'interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell'incolumità fisica e psichica delle persone indicate nell'art. 572 c.p., interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari; tuttavia, deve escludersi che la compromissione del bene protetto si verifichi in presenza di semplici fatti che ledono ovvero mettono in pericolo l'incolumità personale, la libertà o l'onore di una persona della famiglia, essendo necessario, per la configurabilità del reato, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile.

Il fatto che con il verbo "maltrattare" il legislatore abbia utilizzato un espressione polidesignante (comprensiva sia della condotta tipica sia dell'elemento soggettivo del reato) non esime dal prendere in esame i profili più strettamente legati all'elemento psicologico. Sul punto la giurisprudenza è costante nel senso che per la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 572 c.p. non è necessario che l'agente abbia perseguito particolari finalità né il pravo proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisiche o morali senza plausibile motivo, essendo invece sufficiente il dolo generico, cioè la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo ed abituale; non è, quindi, richiesto un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto; essendo l'elemento unificatore dei singoli episodi costituito da un dolo unitario, e pressoché programmatico, che abbraccia e fonde le diverse azioni; esso consiste nell'inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte; esso è, perciò costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento dall'unica intenzione criminosa di ledere l'integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze. Si è insistito, più in particolare, sull'unitarietà del dolo, in modo da non confonderlo con la coscienza e volontà di ciascun frammento della condotta, tanto da negare che l'elemento psicologico debba scaturire da uno specifico programma criminoso rigorosamente finalizzato alla realizzazione del risultato effettivamente raggiunto (l'espressione "quasi programmatica" viene perciò intesa obiter); vale a dire, non occorre che debba essere fin dall'inizio presente una rappresentazione della serie degli episodi; quel che la legge impone, infatti, è che sussista la coscienza e volontà di commettere una serie di fatti lesivi della integrità fisica e della libertà o del decoro della persona offesa in modo abituale. Un intento, dunque, riferibile alla continuità del complesso e perfettamente compatibile con la struttura abituale del reato, attestata ad un comportamento che solo progressivamente è in grado di realizzare il risultato; la conseguenza è che il momento soggettivo che travalica le singole parti della condotta e che esprime il dolo del delitto di maltrattamenti può ben realizzarsi in modo graduale, venendo esso a costituire il dato unificatore di ciascuna delle componenti oggettive. La valutazione di tale componente soggettiva di difficile connotazione esterna, è rimessa necessariamente al prudente apprezzamento del Giudice di merito il quale però, proprio per tale ragione, deve fornire del suo convincimento una motivazione priva di vizi logici, ed ancorata a dati di fatto che costituiscano chiara manifestazione della intima volizione dell'imputato/indagato. Il movente, a sua volta, non esclude il dolo, alla cui nozione è estraneo, ma lo evidenzia, rivelando la comunanza del nesso psicologico fra i ripetuti e numerosi atti lesivi. O, ancora, che il reato di cui all'art. 572 c.p. consiste nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita; i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l'esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo. Anche se non pare inopportuno rilevare che il reato appare contrassegnato, di norma, da una progressione anche psicologica che prende sempre più maggiore consistenza fino a tradursi nell'intenzione di maltrattare. Non necessariamente, dunque, un programma ab initio, ma la consapevolezza della lesione della personalità del soggetto passivo che, man mano, realizza la volontà prevaricatrice; fermo restando che l'unità dell'elemento soggettivo è da intendersi, meglio, come entità che trascende i singoli atti ciascuno dei quali può anche non integrare un'ipotesi di reato; così usando alla lettera l'espressione "maltrattare".

Si è affermato (cfr. Cass. sez. VI n. 7369 del 13-11-2012/14-2-2013, rv. 254026) che il delitto di maltrattamenti in famiglia in danno del coniuge assorbe i reati di ingiuria, molestia ed atti persecutori anche in caso di separazione e di conseguente cessazione della convivenza, rimanendo integri i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale.

A questo proposito, premessa la considerazione che la convivenza è, secondo l'id quod plerumque accidit, il fenomeno che rivela fisicamente il rapporto di solidarietà e protezione che lega due o più persone che formano un consorzio familiare, è stato precisato (cfr. Cass. sez. VI n. 22915 del 7/27-5-2013, rv. 255628) che la predetta affermazione vale nel caso di separazione (consensuale o giudiziale) dei coniugi, perché, nonostante la cessazione della convivenza, persistono gli obblighi giuridici, sia pure attenuati, di assistenza materiale e morale nascenti dal matrimonio. Non può valere, invece, nell'ipotesi della famiglia di fatto, perché la cessazione della convivenza rende manifesta l'avvenuta estinzione dell'effectio che reggeva quella unione, a meno che altri elementi rivelino la prosecuzione del rapporto di reciproca assistenza che costituisce il fondamento volontario della famiglia di fatto. Il legislatore, facendo tesoro dell'approdo cui è pervenuta la consolidata giurisprudenza di legittimità, con la novella 1 ottobre 2012, n. 172, ha parzialmente riformato l'art. 572 c.p., cambiando la rubrica da "maltrattamenti in famiglia" in "maltrattamenti contro familiari e conviventi" e precisando che soggetto passivo del reato non è soltanto "una persona della famiglia", ma "una persona della famiglia o comunque convivente". In altre parole il legislatore, riconosciuto il valore sociale della convivenza come modello idoneo a costituire una di quelle formazioni sociali che l'ordinamento costituzionale si impegna a riconoscere e garantire (v. art. 2 Cost.), ha inteso assicurare tutela penale non solo ai componenti della famiglia legale, ma anche ai membri delle unioni di fatto fondate sulla convivenza.

Quando la condotta è in danno del coniuge, la permanenza cessa allorché interviene il divorzio cui non segua la ricomposizione di una relazione e consuetudine di vita improntata a rapporti di assistenza e solidarietà reciproche (cfr. Cass. sez. VI n. 50333 del 12-6/13-12-2013, rv. 258644).

Circa l'individuazione del luogo di consumazione dei fatti, e, conseguentemente, del Giudice territorialmente competente, il delitto che ci occupa, configurando un'ipotesi di reato abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti che isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili, si consuma nel momento e nel luogo in cui le condotte poste in essere divengono complessivamente riconoscibili e qualificabili come maltrattamenti, e si identificano nel luogo in cui la condotta viene consumata all'atto della presentazione della denuncia (cfr. Cass. sez. VI n. 43221 del 25-9/22-10-2013, rv. 257461).

Quanto al decorso del termine di prescrizione, per i reati abituali esso avviene dal giorno dell'ultima condotta tenuta, la quale chiude il periodo consumativo iniziatosi con la condotta che, insieme alle precedenti, forma la serie minima di rilevanza. Dunque l'intervenuta prescrizione degli autonomi illeciti eventualmente integrati da alcune delle condotte che concorrono a realizzare il reato di maltrattamenti non ne determina l'irrilevanza ai fini della sussistenza di quest'ultimo, qualora per esso la causa estintiva non si sia ancora perfezionata (cfr. Cass. sez. VI n. 44700 dell'8-10/6-11-2013).

Da ultimo, è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l'agente, quando quest'ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione (cfr. Cass. sez. II n. 39331 del 5-7/22-9-2016, rv. 267915; in motivazione la S.C. ha altresì precisato che la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie e, pertanto, quanto al rapporto tra i coniugi, la separazione legale non esclude il reato quando le condotte persecutorie incidano sui vincoli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, nonché di collaborazione, che permangono integri anche seguito della cessazione della convivenza).

Anche alla luce degli illustrati insegnamenti giurisprudenziali, va allora ritenuta la colpevolezza dell'imputato dei delitti di cui al capo A), avendo il B. posto in essere - per un lasso temporale insorto circa un anno e mezzo prima dell'episodio dell'8 novembre 2015, con conseguente innegabile abitualità - condotte tese all'imposizione ai danni di P.K., M.V. e M.A. di un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile, con una condotta lesiva dell'integrità, della libertà, dell'onore e del decoro dei soggetti passivi.

La colpevolezza dell'imputato in ordine al delitto sub B)

Anche quanto alla violenza sessuale compendiata al capo B) deve ritenersi provata al di là di ogni ragionevole dubbio la colpevolezza del B. - alla luce della deposizione della vittima, "riscontrata" dalla testimonianza della figlia V. - ed il fatto che l'imputato non sia riuscito a penetrare la P. non esclude che la violenza si sia perfezionata {essendo i genitali dell'imputato venuti a contatto con la zona inguinale della parte civile}, in conformità agli insegnamenti secondo i quali, in tema di violenza sessuale:

- il tentativo è configurabile non solo nel caso in cui gli atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere un abuso sessuale non si siano estrinsecati in un contatto corporeo, ma anche quando il contatto sia stato superficiale o fugace e non abbia attinto una zona erogena o considerata tale dal reo per la reazione della vittima o per altri fattori indipendenti dalla volontà dell'agente, mentre per la consumazione del reato è sufficiente che il colpevole raggiunga le parti intime della persona offesa (zone genitali o comunque erogene), essendo indifferente che il contatto corporeo sia di breve durata, che la vittima sia riuscita a sottrarsi all'azione dell'aggressore o che quest'ultimo consegua la soddisfazione erotica (cfr. Cass. sez. III n. 4674 del 22-10-2014/2-2-2015, rv. 262472);

- è configurabile il tentativo del reato in tutte le ipotesi in cui la condotta violenta o minacciosa non abbia determinato un'immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, poiché l'agente non ha raggiunto le zone intime (genitali o erogene) della vittima ovvero non ha provocato un contatto di quest'ultima con le proprie parti intime (cfr. Cass. sez. III n. 17414 del 18-2/28-4-2016, rv. 266900).

Né varrebbe prospettarsi che la querela sporta da P.K. (in data 8-11-2015 presso la Stazione Carabinieri di Montesilvano) sia stata presentata oltre il termine previsto dall'art. 609 septies, 2 co., c.p., poiché nel caso in esame si procede d'ufficio ai sensi dell'art. 609 septies, 4 co. n. 2), c.p., essendo il fatto stato commesso dal (marito) convivente della madre della vittima.

Poiché nel capo d'imputazione sub B) il Pubblico Ministero ipotizzava la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 1) c.p., appare opportuno rammentare che:

- il giudizio sui motivi abietti o futili non può essere riferito ad un comportamento medio, attesa la difficoltà di definire i contorni di un simile astratto modello di agire, ma va ancorato agli elementi concreti tenendo conto delle connotazioni culturali del soggetto giudicato, del contesto sociale e del particolare momento in cui il fatto si è verificato, nonché dei fattori ambientali che possono avere condizionato la condotta criminosa (nella specie, cfr. Cass. sez. V n. 36892 del 21-4/25-7-2017, rv. 270804, la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva riconosciuto il motivo abietto nell'omicidio del figlio di due anni perpetrato dall'imputato per vendicarsi della decisione della madre di interrompere la relazione);

- in tema di circostanze aggravanti comuni, costituisce "motivo abietto" il movente spregevole, ignobile e rivelatore di un tale grado di perversità da destare un profondo senso di ripugnanza in ogni persona di media moralità (cfr. Cass. sez. V n. 33250 del 2-2/7-7-2017, rv. 271214, fattispecie in tema di tentato omicidio, in cui la Corte ha ritenuto configurabile l'aggravante nella condotta dell'imputato che aveva colpito ripetutamente con un coltello la vittima per vendicarsi del suo rifiuto di assecondarlo sessualmente);

- per la configurabilità della circostanza aggravante dei motivi abietti o futili occorre che il movente del reato sia identificato con certezza, non potendo l'ambiguità probatoria sul punto ritorcersi in danno dell'imputato (cfr. Cass. sez. I n. 54074 del 18-1/30-11-2017, rv. 272035).

Atteso come il Pubblico Ministero non abbia neppure abbozzato una qualsivoglia motivazione del perché l'imputato abbia agito per motivi abietti - si consideri che, addirittura, ci si è limitati a riportare la dicitura "art. 61, n. 1", senza precisare se si intendesse fare riferimento ai motivi abietti, a quelli futili o ad entrambi - deve ritenersi l'insussistenza della contestata circostanza aggravante.

Da ultimo va rimarcato che il delitto di violenza sessuale concorre con quello di maltrattamenti in famiglia qualora, attesa la diversità dei beni giuridici offesi, le condotte di abuso sessuale, oltre a cagionare sofferenze psichiche alla vittima, ledano anche la sua libertà di autodeterminazione in materia sessuale, potendosi configurare l'assorbimento esclusivamente nel caso in cui vi sia piena coincidenza tra le due condotte, ovvero quando il delitto di maltrattamenti sia consistito nella mera reiterazione degli atti di violenza sessuale (cfr. Cass. sez. III n. 40663 del 23/29-6-2016, rv. 267595).

La colpevolezza dell'imputato in ordine al delitto sub C)

Analoga certezza deve essere affermata quanto all'aver commesso - l'imputato - la condotta illecita di cui al capo C), anche se ad essa appare meglio attagliarsi il paradigma del delitto di percosse, non essendo state diagnosticate lesioni nel menzionato certificato dell'8-11-2015.

La dosimetria della pena

Quanto alla contestata recidiva reiterata specifica di cui all'art. 99, 4 co., c.p. {essendo il B. stato condannato definitivamente due volte per violenza carnale ed altrettante per lesioni personali}, con una valutazione fortemente ispirata al brocardo in dubio pro reo può ritenersi che lo iato temporale tra tali fatti e quelli oggetto del presente giudizio deponga per l'insussistenza della recidiva.

Congrua appare allora la pena di anni sette e mesi due di reclusione, alla quale si perviene con il seguente calcolo:

- pena base per il delitto sub B) {superiore al minimo edittale poiché il B., essendo stato condannato già due volte per il delitto di violenza carnale, ha dimostrato una preoccupante e malvagia incapacità di controllare i propri impulsi sessuali}: anni cinque e mesi sei di reclusione;

- aumento per ciascuno dei tre episodi di maltrattamenti di cui al capo A): mesi sei di reclusione;

- aumento per le percosse di cui al capo C): mesi due di reclusione;

- pena finale: anni sette e mesi due di reclusione.

La malvagità dell'imputato ed i cinque - gravi - precedenti penali ostano alla concessione delle circostanze attenuanti generiche.

Le statuizioni civili

Decidendo sulla relativa domanda, l'imputato va condannato al risarcimento del danno morale subito dalle parti civili che si liquida, in via equitativa:

- in Euro 20.000 in favore di P.K.;

- in Euro 8.000 in favore di M.V.;

- in Euro 5.000 in favore di M.A..

Inoltre, essendo stata accolta la domanda risarcitoria formulata dalle parti civili, l'imputato deve essere condannato alla rifusione, in favore dello Stato, delle spese processuali delle parti civili per la costituzione e difesa nel presente giudizio, come meglio precisato in dispositivo {pari a Euro 300 per la fase studio, Euro 600 per la fase istruttoria, Euro 600 per la fase decisionale, e quindi Euro 1.500 per la prima assistita, da aumentarsi del 20 % per la seconda parte civile e di un altro 20 % per la terza assistita}.

P.Q.M.

il Tribunale di Pescara

visti gli artt. 533 e 535 c.p.p.

DICHIARA

B.E. colpevole dei reati ascrittigli {ritenuta l'insussistenza della contestata circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 1) c.p. e della recidiva reiterata specifica, nonché riqualificato il fatto di cui al capo C) nel delitto di cui all'art. 581 c.p.} e, operato l'aumento per la continuazione, lo condanna alla pena di anni sette e mesi due di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali;

visti gli artt. 29, 32 e 609 nonies c.p.

DICHIARA

B.E. interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela ed all'amministrazione di sostegno, nonché in stato d'interdizione legale durante la pena;

visti gli artt. 185 c.p., 538 e segg. c.p.p.

CONDANNA

B.E.:

- al risarcimento definitivo del danno subito dal reato dalle parti civili che si liquida in Euro 20.000 in favore di P.K., Euro 8.000 in favore di M.V., Euro 5.000 in favore di M.A.;

- al pagamento, in favore dello Stato, delle spese processuali delle parti civili, che qui si liquidano per l'attività difensiva prestata nella complessiva somma di Euro 2.100 per compenso, oltre rimborso spese forfettarie, nonché i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Così deciso in Pescara, il 14 maggio 2018.

Depositata in Cancelleria il 15 maggio 2018.


Avv. Francesco Botta

Rimani aggiornato, seguici su Facebook